Domenico di Palo

MARCO I. DE SANTIS


Sempre attento alla parabola della vita e all’orbita perversa della politica, Domenico di Palo ci ha consegnato un nuovo libro, “Sotto coperta”, edito nell’estate del 1997 da Bastogi di Foggia nella collana di poesia “Il Capricorno”. Nella prefazione alla raccolta Maria Marcone mette in risalto “la crudezza del tessuto linguistico, ma anche il riserbo e quasi pudore di certe metafore verbali”. Nella postfazione Sandro Garrone sottolinea lo “stile desueto e prorompente nella sua giovialità”.

Anche in “Sotto coperta”, come nella silloge “La bella sorte e altri versi” (La Vallisa, Bari, 1985), di Palo mescola pubblico e privato, ironia e tenerezza, ma ora l’atteggiamento prevalente è lo sberleffo e l’accento principale è quello satirico, senza risparmiare a se stesso una salutare dose di autoironia. I testi della nuova raccolta coprono un arco temporale che va dal 1985 al 1996 e ci mostrano un intellettuale ancora più disincantato e appartato, a volte gelosamente rintanato nel suo “territorio” (p. 85), ma che, pur se uscito dall’agone politico, non rinuncia all’intervento civile e poetico. Il componimento eponimo ci dà un’idea più precisa della nuova condizione: “Ricordati/ di santificare la festa/ vecchio animale/ dall’aria molesta.// Non stare più all’erta/ fammi dormire/ sotto coperta/ è più dolce soffrire” (“Sotto coperta”).
Prima d’iniziare, di Palo mette le mani avanti nell’exergon costituito da “Versi”, interrogandosi sul significato della versificazione. La conclusione è che comporre poesie tra folle di dilettanti potrebbe anche apparire superfluo, tuttavia non è detto che non serva a fare la differenza: “Ma mettersi/ a scrivere versi/ in un mare di uguali/ forse un po’ serve/ a sentirsi diversi”.
A passare per il setaccio dell’autore sono innanzitutto il politichese e il sinistrese degli “Anni Settanta”, componenti - vorrei aggiungere – di quel sottocodice linguistico che ha il suo peccato originale nella retorica risorgimentale e fascista e la sua patologia più prossima nel blob politico-affaristico ingigantitosi a ridosso del boom economico italiano. Non si possono a questo proposito non ricordare le parole di dura condanna espresse nel giugno del 1963 su “Resistenza” da Ferruccio Parri su quella “melma di arrivismo parolaio, d’ipocrisia paludata, di opportunismo vendereccio, di ladrocinio sfrontato nel quale la società italiana si (anda)va impantanando”.
Fatte le debite differenze, non sembra che l’andazzo sia di molto cambiato,se, sia pure da un osservatorio di provincia, di Palo in “Le 9 beatitudini” è stato mosso a scrivere: “beato te che nella noia di questo verbo burocratico/ hai sempre modo di sperare in un futuro democratico// beato te che ti ostini nel tuo ottimismo/ in questo immenso mare dell’opportunismo”. E per chi si era illuso che dopo “Tangentopoli” e “Mani pulite” le cose sarebbero di colpo mutate, c’è subito pronta la risposta del poeta: “Non c’è farina/ ma solo crusca// nella squadra del berlusca” (“La seconda Repubblica”). Battuta al vetriolo, che conferma quanto scriveva Curzio Malaparte sull’epigramma: “è una pistola corta, e ammazza più sicuramente di un archibugio”. Battuta fulminante, che anticipa la profonda antipatia del poeta per i tirannosauri della prima Repubblica: “Mi piace, è vero, bere un po’ di vino/ (…) Tu m’ascolti, ma sei triste e stanco// non capisci la bontà dell’oro fino/ e stando senza bere qui al mio fianco/ somigli esattamente a quel cretino// che un giorno davvero me li ha rotti/ perché, mentre io bevevo il vino,/ continuava a parlarmi di Andreotti” (“Un po’ di vino”).
Nel crollo degli ideali e delle certezze, in cui la stessa vita può apparire un programma monocolore, si fanno strada il dubbio, l’immobilismo e il deserto. Così, nel silenzio generale, anche le voci di protesta si affiochiscono e tacciono “tranquillamente/ per omertà” (p. 17). Ma Domenico di Palo non è uomo che demorde e prontamente riprende lo scudiscio contro i vassallaggi, le ipocrisie e le nefandezze in nome della religione e del nazionalismo guerrafondaio (pp. 21 e 27).
Che si tratti del centro o della periferia, l’autore non risparmia nessuno: né gl’inquisiti impudenti e4 sfacciati né i mafiosi di provincia (pp. 22 e 23). E diventa ancora più caustico quando ritrae con crudezza sardonica e misogina certe onnipresenti figure. Sulla spiaggia dello Sporting Club all’improvviso un topo morto si schiaccia sullo scoglio “dove una vestale dell’orgoglio/ di classe e della moda/ - pur sempre avida ma meno soda -/ puntava il maschio d’occasione”. Si scatena allora il finimondo e dalle bocche delle distinte signore vengono fuori esclamazioni irripetibili. “Ma è poi tanto male/ e davvero c’importa/ se fra tante zoccole vive/ ce n’è alfine una morta?” (p. 25). Un’uscita analoga si rivela a proposito di certi “poeti dilettanti/ volutamente ignoranti/ delle cose del mondo/ un po’ ciarlatani/ e a volte ruffiani/ intorno alle sottane/ di certe puttane” (p. 26).
Bisogna però dire che, tra arguzie e bisticci che tendono a sdrammatizzare la visione del sesso nel gioco di coppia (come in “Così”), tra lazzi e freddure sparsi a piene mani dappertutto, il poeta non dimentica calore umano e affetto. E ne dà prova soprattutto nei componimenti dedicati ai suoi cari, a Ena, a Francesca e a Pablo, i quali rappresentano l’altra faccia della medaglia (pp. 36, 59-61) o almeno postulano un rifugio famigliare o una fuga dall’imperfezione della vita. La quale imperfezione a volte fa preferire il silenzio alla “piatta gestione/ dell’esistente” (p. 40), se il rischio è di “bloccarti comunque// e poi simulando/ di vivere ancora// con il telecomando” (p. 53).
Non resta, allora, che il potere della risata, arma tremenda nelle mani di chi lo possiede, come ha scritto Leopardi nei “Pensieri” (LXXVIII): “Grande tra gli uomini e di gran terrore è la potenza del riso: contro il quale nessuno nella sua coscienza trova sé munito da ogni parte: C hi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire”. L’annotazione del grande Recanatese viene così parafrasata da di Palo: “Terribile ed awfull -/ scrisse il poeta/ è la potenza del riso.// Tu l’hai condiviso/ da uomo più saggio/ che messosi a dieta// ha pure il coraggio/ di dirlo più forte/ adesso e nell’ora// della nostra morte” (“Più forte”).
Partendo da “Il sabato del villaggio” del grande poeta, Mimì di Palo nella parodia “Il sabato in città” si diverte ad aggiornare le sequenze idilliche leopardiane in quadretti di ordinaria decadenza contemporanea: “La fanciullina vien dalla campagna/ in sul calar del sole/ e reca in mano, siccome è sola/ cocaina e coccola./ (…) E intanto riede/ alla sua lauta mensa/ fischiando l’assessore/ e seco pensa/ di fornir l’opra/ a chi per lui s’adopra”:
Sempre in chiave parodistica di Palo, in “L’età dell’auto”, rivisita anche Eugenio Montale, adattando “La farandola dei fanciulli sul greto” di “Ossi di seppia” a ilare censura dell’invasione automobilistica e dell’inquinamento atmosferico urbano.
Specchio grottesco e deformante del malessere esistenziale è invece la filastrocca “Che freddo stasera”, dove l’alcol e il sesso, frammezzati da sfoghi escatologici, appaiono gli eden compensativi di una vita grigia e deludente, in una sarabanda iterativa che salda il flusso verbale del racconto nella circolarità della Ringkomposition. Il contraltare di questa situazione è il variegato campionario della scalogna descritto con sbrigliatezza fantozziana in “Quando per la tua fatica” o la condanna delle parole trite e dei luoghi comuni di “Non basta”.
Concludendo, “Sotto coperta” è un libro intelligente e pungente, a volte goliardico e sanguignamente crudo, ma sempre staffilante e lacerante col suo armamentario di boutades e calembours indispensabili a contrastare il disagio morale e il disappunto intellettuale di un poeta che non intende assolutamente gettare la spugna.

                                                                                                            Marco I. De Santis



* In “La Vallisa”, nn. 47-48, Bari dicembre 1997.

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